CAPITOLO II
Quella mattina sembrava che tutto al mondo esistesse per
darle fastidio. Si era svegliata con l’allergia agli occhi, un appetito
esagerato e un forte mal di testa. Inoltre, cosa non poco importante, le pareva
di aver sognato qualcosa di insolito ma non si ricordava che cosa. Usci’ dalla
stanza inciampando sulle Superga blu dimenticate la notte prima davanti alla
porta e scese le scale in legno che separavano i due piani della sua piccola e
solitaria casa triestina. La porta dell’andito che si affacciava sul piccolo
salotto era rimasta aperta. Di solito la chiudeva per motivi che nemmeno lei
era convinta di conoscere chiaramente. Forse perche’ pensava che un ostacolo in
piu’ tra lei ed un possibile assassino le avrebbe dato tempo di fuggire; oppure
i troppi film d’azione visti con suo padre dall’età’ di 8 anni non le avevano
giovato molto. Ad ogni modo, la notte prima non l’aveva voluta chiudere. Quando
si sta male per qualcosa si pensa che possano essere quei gesti di routine a
impedire al destino di sorprenderti. Erano tutti pensieri che la facevano
sentire piu’ disperata di quanto non fosse. Scosto’ la sedia dal tavolo in teak
della cucina; lo guardo’ fieramente e nello stesso istante le vennero in mente
gli occhi di soddisfazione di suo zio dopo averlo comprato ad un’asta promossa
da un vecchio quanto ricco armatore di barche a vela. Le sedie originali
purtroppo non c’erano. Se l’era aggiudicate un benestante imprenditore bolognese che, a detta dello zio,
“le avrebbe sicuramente utilizzate per arredare il salottino di qualche
ristorante vuoto”. Preso da uno sconforto letale, aveva regalato a Sofia il bel
tavolone e le aveva detto di farci quel che voleva. Sofia c’era molto affezionata.
Aveva comprato al discount delle sedie in truciolare dalla forma classica e
spigolosa e le aveva rivestite con della stoffa color panna. D’altronde,
pensava, il marron e il color panna stanno sempre bene insieme. Era una regola
che non doveva valere soltanto per i vestiti. Di sedie ne aveva comprate 6 ma le altre 5 erano sempre
vuote. Un giorno si chiese quando si sarebbero consumate senza mai usarle e
penso’ invece a quella che scostava dal tavolo ogni mattina; quella si sarebbe
rovinata prima. Era meglio rovinare una cosa alla volta piu’ velocemente o
danneggiarne tante piu’ lentamente?. Davanti a queste due opzioni scelse la
seconda. Dopotutto erano sedie robuste ed era piu’ probabile che si rovinasse
prima lei di loro. Per questo motivo una volta alla settimana ne cambiava la
disposizione come fossero delle pallavoliste in campo. Era una di quelle cose
che amava chiamare “strana mania da single”. Oltre a questa c’era anche quella
si spolverare la ringhiera delle scale il Venerdi’ e sedersi sul divano sempre
a sinistra. Si chiedeva se un giorno sarebbe mai arrivato qualcuno a
sconvolgerle l’esistenza e insieme ad essa la casa.
Aperta la credenza delle schifezze da colazione, scelse di
cominciare la mattina con i croissant del supermercato. Amava chiamarli
“croissant fasulli” in contrapposizione con quelli veri che non aveva mai
assaggiato. Ne tolse uno dalla scatola e lo taglio’ a meta’. Poi tolse il tappo
alla confettura di albicocca e col coltello ne prese un po’ e la spalmo’ dentro
la merendina. Una volta una sua collega universitaria le aveva chiesto perche’
non li comprasse gia’ pronti. La verita’ e’ che le piaceva dedicare tre minuti
a quella mania da single piu’ che agli altri mille gesti di routine. Una volta
terminata la colazione riordino’ la cucina. Era un’abitudine ereditata dalla
madre. “Ricorda:” le diceva quando era piccola “la cucina e’ il regno di una
donna e per questo deve essere sempre pulito e in ordine”. Era diventato una
specie di obbligo morale che la faceva sentire in colpa alla prima
trasgressione. Stando attenta a non inciampare nuovamente su qualcosa, apri’ la
portafinestra del salotto che dava a un balcone. Quando faceva troppo freddo le
dispiaceva non poter uscire a salutare Trieste; ma quella giornata era tiepida
come tutte le mattine di giugno. I mandorli di via Mameli erano finalmente in
fiore. Sofia li aspettava ogni anno con ansia. Amava quegli intrecci bianchi e
rosa pallido che poteva toccare dal suo balcone. Un giorno aveva staccato un
fiore e le era sembrato di tenere tra le mani qualcosa di estremamente fragile
e prezioso. A volte si rivedeva nei fiori di mandorlo. Le sembrava di essere
adatta solo in certi momenti e di poter cadere alla prima ventata di
cambiamento. D’altra parte, il pioppo che cresceva al lato est del balcone,
proprio davanti alla porta della signora del piano terra, le dava una
sensazione di fermezza e resistenza. Quegli alberi sembravano descrivere la sua
ambiguita’ interiore. Sofia li amava come tutte quelle cose che non credeva
fossero nella sua vita per caso. Dentro casa suono’ la sveglia delle 8:45. Era
quella che le suggeriva di iniziare a prepararsi per non fare tardi alla
lezione di diritto privato. Si fece una doccia tiepida e si infilo’ la
camicetta azzurra in cotone e i jeans attillati. Fece un promemoria delle cose
da prendere e, infilate le polacchine blu e presa la cartella, si chiuse la
porta di casa alle spalle. Quella mattina Umberto, era passato a potare la
siepe. Si poteva ancora sentire l’odore degli oleandri bianchi. Prese la bici
posteggiata davanti al cancelletto e si reco’ alla stazione. Livio,
l’edicolante della stazione, era un amico di famiglia. La conosceva da quando
era piccola e Sofia l’aveva sempre adorato per il suo fermo ottimismo. Fu da
Livio che ricevette il suo primo fumetto. Visto il piacere con cui l’aveva
letto, quell’uomo sulla sessantina si era premurato di dargliene uno alla
settimana e, a distanza di dodici
anni, non gli era ancora sembrata ora di smettere. Sofia teneva tutti quei
giornalini ordinatamente disposti nello scaffale accanto alla televisione.
Quando le mancava la sua famiglia e aveva voglia di un tuffo nel passato, ne
apriva uno e si faceva avvolgere dalle storie di quei personaggi strampalati.
Quella mattina di giugno pero’, Sofia non aveva bisogno di un fumetto.
Desiderava un analgesico. Livio ne prendeva in quantita’ industriali perche’, a
detta sua, sentiva sempre uno strano ronzio nell’orecchio. Quando ingurgitava
una pastiglia, gli sembrava di sentire un sollievo temporaneo; a Sofia pareva
che fosse soltanto una sensazione di benessere falsa quanto quella dei finti
malati che ricevono un’iniezione di acqua fisiologica al posto di un
antidolorifico. Lei pero’ aveva davvero bisogno di quella pastiglia. Non
avrebbe saputo sopportare la voce del professore per neppure cinque minuti.
Livio ogni volta sembrava contento di rendersi utile per Sofia; le porse la
medicina e torno’ a servire una giovane che chiedeva l’enigmistica della
settimana.
Mia madre ha sempre voluto che scrivessi un libro.. A volte scrivere mi aiuta a vedere le cose come le vorrei o semplicemente come non sono. Tutti ne hanno bisogno; altrimenti non esisterebbero i film Disney o le fotografie in cui siamo usciti meglio del normale.
Camera: Sprocket Rocket; Film: Fujicolor 400 |
M*
3 Days Till Friday
3 Comments
missà che ci scriviamo entrambe in lettere e tagliamo la testa al toro! Ahahah :) sei brava a scrivere Miri, non smettere. Un abbraccio <3
Grazie Sare' :) (ps: mi sa che se non ci commentiamo tra di noi, qui' non ci caga nessuno ahah)
Lo penso anch'io ahahah più che altro nessuno che conosco ha un blog...è un po' una sfiga anche questa!
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